lunedì 5 gennaio 2009

Un pò di pazienza !

Il sito verrà aggiornato tra qualche giorno !!!


lunedì 24 novembre 2008

Silence Is Wild - Frida Hyvönen ( 2008 )


Il mondo musicale svedese conferma la sua vivacità, con una certa scena indie che diventa sempre più protagonista, al jazz d' avanguardia, oltre all'ormai classico metal scandinavo si affianca ora un nuovo songwriting, degno di nota. Tra questo, non si può non parlare di questa cantautrice che da pochissimo ha pubblicato il suo terzo album : Frida Hyvönen con il suo Silence Is Wild pubblicato dalla Liking Fingers.
La biondissima cantautrice è al suo terzo lavoro, pregevoli anche i primi due : il minimale e delicato Until Death Comes del 2005 e il successivo Frida Hyvönen Gives You: Music from the Dance Performance PUDEL disco del 2007 più orchestrale, nato in origine come musiche per uno spettacolo teatrale. Ma con questo Silence Is World, siamo di fronte ad un evidente salto di qualità. La trentunenne svedese ( ma di padre norvegese ) ha raggiunto un significativo livello di maturità sia nel canto che nella composizione.
In un mondo rumoroso, il Silenzio è un elemento portante dell'album, l'uso del silenzio, delle sue pause. I temi trattati, spesso autobiografici, sono semplici, come apparentemente semplice è la sua musica : storie d'amore, vive quanto timide, ricordi familiari, ma temi anche più forti, come l'anoressia. I brani sono tante piccole perle, sempre equilibrati, senza inutili e forzati eccessi. Sicuramente l'apertura del disco, con l'autobiografica Dirty Dancing mette in mostra tutte le caratteristiche di Frida Hyvönen, una prima parte che porterà i nostri ricordi ai momenti pianistici di Joni Mitchell in Ladies of The Canyon, con un ritornello più “anni 50 ”. Highway 2 u è struggente quanto raffinata, brano senza dubbio tra i momenti più emozionanti di un disco emozionante. London! è una dedica ad una Londra che forse non c'è più, alla quella città dei gentlmen e dei loro clubs. Affascinanti le contemplazioni scientifiche di Science come anche Oh Shangai e Sic transit gloria dove il connubio tra piano e voce ci regala momenti delicati ma mai scontati.
Riecheggeranno nella nostra mente artiste come Joni Mitchell, Laura Nyro e forse anche Sandy Denny, ma dato che non si tratta assolutamente si volgari scopiazzature, ma più che altro di sincere “ suggestioni “, il giudizio su questo disco e su questa cantautrice è più che positivo. Non ci rimane che andarla ad ascoltare ( sarà in Italia il 12 dicembre, a Ravenna ) dal vivo, dove poter godere del suo pianoforte e della sua bellissima voce.

martedì 11 novembre 2008

Neptune City - Nicole Atkins ( 2008 )


Perchè dedicare un disco ad una paesino del New Jersey di poco più di 5000 anime ? Perchè ci vive Jack Nicholson ? O Danny De Vito ? Perchè ci è nato Bruce Springsteen?
Lei non lo ha fatto per questi motivi. Lei in quel paesino ci è nata, è cresciuta, si è formata e ne va così orgogliosa da dedicargli il suo primo disco.
Non si tratta dell'ennesima pop-girl made in Usa, iperprodotta e “sintetica”, dell'ennesima falsa rock-girl dissoluta sbandata, ma di una cantautrice purosangue, come da tempo non se ne sentivano. Nicole Atkins definisce se stessa come una cantautrice pop-noir e ascoltando il disco, questa pare una giusta – seppur semplicistica – definizione.
Il disco racconta di uno spicchio di mondo, che parte appunto da Neptune City, parte dalla vita della stessa Atkins, da queste piccole storie che potrebbero essere le storie di molti. Il tutto, in una chiave a volte ironica, molto spesso malinconica, sempre emozionante. L'atmosfera musicale è varia, ma tenuta insieme da uno stile molto personale. E' presente un certo country, psichedelia '60, atmosfere da musical, tracce di soul, ma la personalità di Nicole Atkins emerge e lega alla perfezione il tutto.
Diretto, molto orecchiabile e coinvolgente è il pezzo che apre il disco : Mayebe Tonight, dove ritornano alla mente le Ronnettes, uno dei momenti musicalmente più “facili”del disco, ma non per questo di minore qualità. Strana la sensazione di gioia e malinconia che il brano riesce a suscitare, nel suo domandarsi se “cogliere l'attimo”. Passa piacevolmente l'ascolto di Together were both alone, che con il suo pomposo arrangiamento ci porta ad uno dei brani più belli ed emozionanti del disco, passato qualche volta per radio ( fortunatamente, anche se spesso a notte fonda )e anche in nei canali musicali televisivi ovvero The Way it Is : musicalmente legato ad una certa tradizione americana ( come detto in precedenza, tra musical e '60 ), qui la voce di Nicole Atkins si esprime con una forza ed un vigore davvero emozionanti, il timbro è davvero bello, lontano da quegli “squittii” oppure da inutili e forzati “gorgheggi” che spesso si è costretti ad ascoltare. Una storia, una storia d'amore, di tormento e di ricerca interiore, ma tutta molto “noir”.
Cool Enough, il cui testo, sempre ispirato da storie reali, tratta della percezione e del giudizio sulle persone che cambia dopo alcuni eventi: ispirata ad un professore finito in carcere dopo una relazione con una sua allieva mantiene musicalmente un livello molto alto, ricca di arrangiamenti, ad un intro cupo e quasi ipnotico, si arriverà ad un finale pieno, coinvolgente. Dopo la bella e malinconica ballata War Torn e Love Surreal ( brano di cui non avremmo sentito forse la mancanza ), si arriva alla bellissima Neptune City, struggente dedica dark alla sua piccola città, e a tutti quei microcosmi che tanto influenzano la vita di ciascuno di noi.
La sdrammatizzazione arriva con i cori di fanciulli di Brooklin's On Fire, mentre Kill the Headlights è quasi un ponte, tra l'oggi e le sonorità sixties del finale del disco, quella Party's Over dalla voce sognante ma mai flebile.
In questo disco, ricco di suggestioni, troviamo tanti riferimenti ( si potrebbero aggiungere i Mamas and Papas, Roy Orbison, Badalamenti ecc. ) ma è certa l'originalità, come certa è la classe vocale , compositiva e il fascino di questa nuova regina, non del pop ( giammai!), ma del Pop-Noir.

martedì 8 gennaio 2008

Concerto Grosso - The Seven Season - New Trolls 2007


Dopo quarant'anni di carriera - fatta di divisioni, alti e bassi, luci ed ombre, capolavori e momenti più "easy listening" - , tornano i New Trolls con i leader Nico Di Palo e Vittorio De Scalzi, a cui si affiancano i nuovi componenti della band. La band genovese torna con un nuovo lavoro e per farlo sceglie la strada più difficile, quella del ritorno al progressive ed in particolar modo, il ritorno a quel "concerto grosso" che è stata una delle tappe fondamentali non solo del gruppo ma della musica italiana più in generale.
Il disco è molto curato, bella la copertina, kitch quanto basta. I brani sono composti da De Scalzi e Di Palo, con i testi per la maggioranza in inglese, di Shel Shapiro. Partecipano al disco ospiti importanti, provenienti per lo più dal mondo classico.
Il disco si ascolta con un certo "timore", dato che viene naturale il paragone con i precedenti lavori del gruppo ( Concerto Grosso numero 1 del '71 e in misura minore, il numero 2 del '76).
Il disco si apre con "The Knowledge", piccola overture dove le caratteristiche del concerto grosso emergono subito : contrappunti tra archi e strumenti elettrici, con il flauto di De Scalzi
subito in evidenza. I suoni di chitarra elettrica, affidata ad Andrea Maddalone sono molto aggressivi e moderni, i suoni degli archi sono molto puliti ma non freddi. Una efficace introduzione strumentale. Si passa quindi ad una ballata, "Dance With The Rain". La voce è di De Scalzi, le armonie non sono originalissime, ma il flauto ed i cori ci riportano indietro nel tempo, sono i New Trolls che "fanno" i New Trolls. Il brano sarà ripreso alla fine del disco in una versione in italiano dal titolo "So Che Ci Sei". Le atmosfere barocche tornano con "Future Joy", uno scherzo che vede un gran lavoro con gli archi, l'oboe e la chitarra elettrica, il cui suono è forse un po' troppo "metal". A questo punto entriamo nel vivo del disco, con la cadenza di violoncello "High Education" che fa da introduzione a "The Seven Season" : l'accompagnamento principale è affidato proprio al violoncello, a mo' di chitarra elettrica. Arrivano, con prepotenza i cori dei New Trolls, sempre eleganti, sempre armonizzati alla perfezione. Belle le melodie della chitarra elettrica. Di Palo però, sarebbe stata altra cosa. Non ce ne voglia il chitarrista Maddalone, a cui va tutto il nostro apprezzamento per aver avuto il "coraggio" di sostituire alla chitarra Nico Di Palo, il quale possedeva uno stile molto personale e davvero apprezzabile (dopo l'incidente di diversi anni fa, Di Palo si limita alla composizione, alle tastiere ed al canto). Nel pezzo, si sentirà la voce recitante di Shel Shapiro.
Il larghetto di "One Magic Moment", ballata dalle belle melodie che vede il soprano Madelyn Monti come ospite, non puo' non farci tornare in mente i duetti Mercury-Caballè, ma i cori e le musiche in stile Trolls, danno al pezzo luce e vita propria.
"Barocco 'n' Roll" è forse troppo “malmsteeniano”, fortunatamente, ci sono stati risparmiati i "tipici" assoli chilometrici di chitarra. I momenti con gli archi si fanno apprezzare.
Dopo un intruduzione di chitarra classica, semplice ed efficace si passa a "Testament Of The Time", classico andante, in linea con i precedenti Concerto Grosso 1 e 2. Le melodie, anche se non passeranno alla storia per originalità sono bellissime, i cori sempre puntali e perfetti, Vitanza con eleganza arrichisce il pezzo con pochi e misurati fill di batteria : il pezzo è davvero bello. Una tipica "drammaticità" alla New Trolls.
Con "The Ray Of The White Light" il gruppo ci dice che erano e rimangono tra le migliori voci del panorama italiano : la voce di De Scalzi si è fatta con il tempo ancora più calda e matura e i tipici falsetti armonizzati ci sono tutti, fluidi ed avvolgenti come sempre.
Altro adagio, con "To Love The Land", splendida ballata dalla belle armonie a dalle melodie eleganti ed orecchiabili. I cori arrivano puntuali nel ritornello, come i cambi di tonalità. Gli interventi di chitarra elettrica sono centrati appieno.
Il piano preludio di "The Season of Hope", vede una introduzione di piano molto bella (ricorda alcuni lavori di Keith Jarrett), poi arrivano gli archi, la tensione aumenta ma per ritornare subito alla tranquillità di sonorità quasi jazzy. Il pezzo si lega al successivo "Simply Angels", una piccola suite di poco più di sei minuti, dove la band si sfoga con i musicisti che mettono in mostra la loro bravura ( le atmosfere sono da Concerto grosso 2, specie per i cori). Il pezzo è vario, negli arrangiamenti e nelle armonie, i riff sono accattivanti : siamo in pieno progressive.
La tranquilla canzona "Ethix" chiude questo lavoro.
Un disco che sarebbe potuto essere un semplice "amarcord" ma che invece vede sonorità moderne oltre alle caratteristiche della "sigla" che qui vengono riproposte : le aspettative di si accosta a questo disco vengono soddisfatte. A questo terzo concerto grosso si sta anche affiancando una nuova stagione live della band, con concerti di taglio rock-prog.

I New Trolls sono tornati. Evviva i New Trolls.

sabato 29 dicembre 2007

Desperado - Eagles 1973


Quando Glenn Frey (chitarra) e Don Henley (batteria) chiamano Bernie Leadon (chitarra e mandolino) e Randy Meisner (basso), non immaginavano certo di dare vita ad una delle più importanti band country-rock di sempre e più in generale ad uno dei pilastri del rock. Dopo l'esordio, con l'album omonimo, "classico" lavoro country-rock, vicino ad alcuni lavori di Jackson Browne ( che tra l'altro collabora con il gruppo, ) i quattro pubblicano questo "Desperado" : è il 1973. L'album, che è un concept, sin dalla copertina ci porta nel tema del disco. Ci troviamo in piena "epopea" western, i testi ci parlano di banditi, di tramonti malinoconici, di cow boy, di donne. Si sente odore di vecchio west in maniera maggiore di tanti dischi di buegrass o comunque di folk USA "puro". Le atmosfere sono suggestive, la polvere, i cavalli, il profumo del legno di un saloon o di una vecchia Martin D28 sembrano venire fuori dal disco. Il primo pezzo, "Doolin-Dalton", queste caratteristiche le racchiude tutte : chitarre acustiche dai suoni bellissimi, una malinconica armonica a bocca in lontananza, dei cori eccezionali che ben si legano con le chitarre elettriche e la batteria. Le voci si alternano, Don Henley mostra le potenzialità del suo splendido timbro. "Twenty One", il pezzo successivo, ha il classico "locomotive" beat, complice un drumming in stile ma soprattutto un grande lavoro al banjo da parte di Barnie Leadon, che dona un pieno tessuto ritmico al pezzo. Come sempre, tutto arricchito dai cori. Dopo il rock più duro e sempre ben suonato di "Out Of Control", si passa a "Tequila Sunrise", tra i brani più belli dell'intera carriera degli Eagles. La ritmica delle chitarre (quasi un beguine) creano un'atmosfera "messicaneggiante", i ricami della steel guitar sono elegantissimi, come tutte le parti vocali, una atmosfera di rilassata malinconia. Segue quindi l'altro capolavoro degli Eagles, "Desperado". Una struggente ballata, affidata alla voce di Henley (autore del brano), con piano e orchestra in evidenza, un classico che negli anni verrà re-interpretato da molti, senza raggiungere mai la bellezza della versione originale. "Certain Kind Of Fool" è in bilico tra il country-rock ed il rock vero e proprio, con un pregevole assolo di chitarra elettrica (ma siamo ancora lontanti da Hotel California e da i soli di Joe Walsh, che entrerà in un secondo momento nel gruppo). I quarantotto secondi di banjo di "Doolin-Dalton" fanno da preludio a "Outlaw man", brano rock che si lega ad un certa tradizone country-rock americana dei fine anni sessanta. Nuovamente atmosfere di "confine" ( qui inteso come frontiera immaginaria tra gli U.S.A ed il Messico..) con "Saturday Night" : ritmiche lente, cori molto in evidenza e ben arrangiati, mandolino che caratterizza il brano. "Bitter Creek", pezzo lento, piacevole e ben arrangiato, è uno dei pochi che può ricordare alcune cose alla C,S,N&Y. Siamo alla fine, ma come l'album è ben partito, altrettanto bene si conclude, con "Doolin Dalton - Desperado (reprise)". In pratica è un riassunto delle due canzoni, ma arricchita da un gran lavoro di banjo e chitarra elettrica la prima, con un bellissimo "ponte musicale" affidato alla voce di Henley che ci porta ad una versione di "Desperado" più corale e piena. Un medley bellissimo, atipico, che vive in maniera autonoma chiude questo album, che, nonostante sia a pieno titolo espressione di un genere oggi sicuramente non proprio in voga, se ascoltato oggi, regalerà emozioni ed un sapore di avventura di vecchio west.

giovedì 20 dicembre 2007

Hatfield & The North - Hatfield & The North 1973


Se si uniscono musicisti dei Caravan, dei Khan, degli Egg, dei Matching Mole e dei Gong e via discorrendo il rischio di ottenere un miscela "esplosiva" è davvero alto. Da queste esperienze provenivano Richard Sinclair, Pip Pyle, Phil Miller e Dave Stewart che ottenendo anche la collaborazione del grande Robert Wyatt, diedero vita nel 1973 agli Hatfield & The North. Questo esperienza sarà una delle vette più alte del Canterbury Sound, due soli album, ma che hanno lasciato il segno.Il disco di esordio, omonimo, racchiude il meglio delle caratteristiche dei musicisti e delle loro storie musicali. La meravigliosa copertina "veste" al meglio questo lavoro. L'equilibrio è perfetto tra le melodie di stampo "caravaniano" e le improvvisazioni di taglio jazzistico. Il suono complessivo - eccezion fatta forse solo per la chitarra elettrica distorta - è straordinariamente attuale.La prima vera traccia, dopo i suoni introduttivi di "The Stubbs Effect" e la "pennellata" alla Caravan - che verrà poi ripresa - di "Big Jobs(Poo Poo Extract) è "Going Up To People And Tinkling", dove la vena jazz-rock delle tastiere di Dave Stewart emerge senza titubanze, con la batteria di Pip Pyle elegante come sempre. Subito dopo, con "Calyx" arrivano i "gorgheggi" di Robert Wyatt ( probabilmente alla prima uscita dopo l'incidente ). Il brano è straordinario, le armonie per niente ovvie, atmosfere eteree, voci che si inseguono, melodie irregolari ma nel contempo fluide. Siamo nel centro di Canterbury.Partono adesso gli oltre dieci minuti di "Son Of There's No Place Like Hom", che dalla prima parte, con melodie non proprio usuali, si sposta verso melodie ancora più strane, quasi a riprodurre uno sghembo vociare di bambini, ma verso metà del pezzo arrivano le "The Northettes", con i loro coro angelico, che faranno da preludio ad una marcetta prog che ci condurrà alla fine del brano. Davvero originale, ma senza forzature. Dai dieci minuti del brano precedente si passa ai due minuti scarsi di "Aigrette", con la melodia in unisono tra voce e chitarra acustica, molto jazzy. Con la successiva "Rifferama", i musicisti daranno sfogo all'improvvisazione, siamo in pieno territorio jazz-rock, condito però da alcuni suoni atipici per il genere, ma propri di alcune esperienze canterburiane. Chiudono il pezzo delle "classiche" risate da telefilm(da notare,all'interno della copertina, una foto dei protagonisti della serie tv "Bonanza").Con "Fol De Rol" viene fuori la vena malinconica tipica dei Caravan, la voce di Sinclair ed il suo basso caratterizzano ancora di più la bellissima melodia del pezzo.In questa alternanza tra brani corti con brani più strutturati, si arriva a "Shaving Is Boring", che passa subito da una primissima parte leggera ad un riff molto duro, con soli di basso, anche distorto, drumming molto serrato, specie sui piatti. Si è creato un tappeto sonoro a tratti psichedelico, uno dei momenti più difficili del disco, ma ancora più straordinario quando, dopo un letterale "sbattito di porta" si ascoltano frammenti dei brani precedenti che portano ad un preseguo del pezzo, lontani ormai dal riff che ha caratterizzato il brano. Straordinario. La rassicurante voce di Sinclair ci riporta alla calma ed alle tonalità "grigio-rosa" con "Licks For The Ladies": un piccolo gioiello. Dopo la brevissima "Bossa Nochance", sempre cantata da Sinclair, il tema iniziale di "Big Jobs No2" viene ripreso e sviluppato, con eleganza e classe. Il solo di organo, ci riporta a "In The Land Of Gray And Pink", arricchito dai piccoli vocalizzi di Robert Wyatt.Potrà ricordare nelle prime note, la "Primavera" di Grieg il terz'ultimo brano "Lobster In Cleavage Probe", affidato alle voci femminili delle "Northettes" nella prima parte, la seconda è ricca di soli di tastiera, su di una armonia molto varia, che si lega a "Gigantic Land-Crabs In Earth Take", altro momento più duro, con un lungo solo di chitarra elettrica, molto particolare, con un uso delle scale no molto scontato, ma che forse avrebbe meritato un "sound" meno acido. Come in apertura, altri "Stubbs Effect" chiudono questo straordinario disco.Per gli amanti del Canterbury Sound, un must.Come anche il successivo "The Rotter's Club".

martedì 18 dicembre 2007

Solid Air - John Martyn 1973


Dopo l'esordio, a soli diciannove anni, di "London Conversation" del 1967, dove gli elementi donovaniani e si uniscono ad uno stile chitarristico vicino a quello di Bert Jansch, John Martyn - il cui vero nome è Ian McGeachy - pubblica oltre ad un paio di buoni dischi, nel '71 il pregevole "Bless the Weather". Lo stile si sta facendo sempre più caratteristico e solido, riduttivo inserirlo nel panorama della scena del folk-revival. A questo punto, Martyn è pronto per pubblicare il suo più importante lavoro : "Solid Air". Il disco esce nel 1973, per la Island. Presenti nel disco, oltre Richard Thompson, diversi componenti dei Fairport Convention, che arricchiscono il disco con i loro preziosissimi contributi.L'album parte con la title track, "Solid Air", dedidata all'amico Nick Drake, che di li ad un anno sarebbe prematuramente scomparso, suicida.Il brano, forse il più bello della produzione di Martyn, si muove su atmosfere fumose e rilassate, a tratti jazzate - bellissimi gli interventi di sax - con la chitarra acustica che se nelle sonorità può ricordare il genio di Tanworth-in Arden,ha uno stile piuttosto originale. Il contrabbasso è molto presente, si lega perfettamente al brano. Originalissimo il modo di cantare di John Martyn. Brano senza tempo, un capolavoro.Si cambia d'atmosfera con la seconda traccia "Over the Hill". Qui le sonorità sono più folkeggianti, grazie anche ad un bel lavoro con le chitarre e con uno splendido accompagnamento di mandolino del buon Richard Thompson. Una sensazione di spensieratezza, di freschezza, di sana "ruralità". Come scrivere un grande pezzo con soli due accordi. L'atmosfera si fa più cupa con "Don't Want to Know", con belle parti di piano elettrico, con la chitarra in evidenza, un brano di grande stile ed eleganza, un jazz-blues che si fa ricordare. A questo punto, con "I'd Rather Be The Devil" di S. James. Qui le atmosfere cambiano del tutto, i suoni acustici vengono deformati da echo e prendono nuova forma : brano di difficile catalogazione, Martyn lo fa suo, reinventadolo, grazie anche all'estro degli altri musicisti, che raccolgono le sue sollecitazioni. Il contrabbasso ci riporta alla calma, con "Go Down Easy". Brano affidato principalmente al solo Martyn, suggestiva la parte vocale, efficace la chitarra, dalla sonorità particolarmente "legnosa". "Dream By The Sea" è anch'essa ricca di spunti jazzistici, specie nell'uso del sax. Il canto è molto più aggressivo e particolarmente "bluesy". Le chitarre in "loop" creano un efficace tessuto sonoro. Una sorta di jazz-psichedelico.Grande salto stilistico con la successiva "May You Never", pregevole pezzo acustico, praticamente per sola chitarra e voce, più Joni Mitchell che Nick Drake in questo caso. Martyn sfoggia, senza inutili eccessi, una buona tecnica con lo strumento. Nuovamente in atmosfere blues con "The Man In The Station", con il tipico canto "strascicato" di Martyn, fraseggi bluesy di chitarra elettrica. Pezzo elegante e di sicuro effetto. Prima di una versione live di "I’d Rather Be the Devil", c'è "The Easy Blues", "easy" solo nel titolo, dato che l'arrangiamento di chitarra è tecnicamente molto valido. La voce di Martyn è splendidamente a suo agio in atmosfere blues. Dopo un paio di minuti, il brano curiosamente, si trasforma in maniera drastica.Poco altro da aggiungere, un disco da ascoltare, da sentire. Un capolavoro.

lunedì 17 dicembre 2007

Concerto Grosso per i New Trolls - New Trolls 1971


Nel 1971, gli "esperimenti" di fusione tra musica classica e rock erano stati numerosi e di diverso tipo : pensiamo ai Moody Blues, ai Procol Harum, ai lavori dei Nice e successivamente degli Emerson,Lake & Palmer, dove gli strumenti sono prettamente rock, ma la commistione con la musica classica consiste neò riarrangiare brani "classici" in chiave progressive-rock. Ancora più spesso, brani classici affidati alla sola chitarra, diventano un "must" in tanti dischi prog.Questo, ed altro, in Inghilterra. Ma ovviamente, questa tendenza arriva anche in Italia e non si tratta di sole scopiazzature. In quest'anno, viene alla luce uno dischi più importanti della scena prog e non solo italiana : il " Concerto Grosso per i New Trolls ", dove i musicisti genovesi, insieme al compositore L.Bacalov danno vita a un riuscitissimo esempio di fusione tra classica e rock. Questa band era già attiva da diversi anni, il loro esordio, da giovanissimi è datato 1968. Avranno una carriera lunghissima, con numerosi cambi di formazione e anche di nome, con alti e bassi e sempre in bilico tra le tendenze melodiche e quelle più rock. Da poco è uscito " Seven Season's ", di fatto il " Concerto Grosso " numero 3, su cui ritornerò al più presto.Torniamo al disco in questione.Nato come colonna sonora di un film ( adesso considerato da alcuni come "cult") con T.Milian ( ancora non conosciuto ai più ) per la regia di Maurizio Lucidi dal titolo " La vittima designata ", questo album gode da subito di vita propria, con grande successo di critica e cosa non scontata, con ottime vendite.Nel '71 i New Trolls erano composti da Nico Di Palo (chitarra elettrica, voce solista), Vittorio De Scalzi(chitarra elettrica,voce,flauto), Gianni Belleno ( percussioni, voce), Giorgio D'Adamo (chitarra) a cui si aggiunge alle tastiere, Maurizio Salvi. In futuro, la formazione subirà innumerevoli scissioni, nuovi ingressi, ma questa sarà sicuramente una delle migliori. La struttura del disco ricalca appunto quella del concerto grosso di periodo barocco, le musiche sono composte da Bacalov ma che vedono anche lo " zampino " del gruppo, i testi sono ispirati all' Amleto di Shakespeare (...to die, to sleep, maybe to dream...). Il "concerto " è composto da tre movimenti, Allegro, Adagio e Cadenza - Andante con moto, poi troveremo una quarta parte intitolata " Shadows ", dedicata ad Hendrix. Chiude il disco, una lunga improvvisazione ( oltre venti minuti ) dei soli Trolls, senza orchestra.L'apertura del disco con appunto " Primo Tempo - Allegro ", sin dai primi secondi ci fa capire che siamo davanti ad una orchestra vera e propria che subito vedrà la band " contrappuntare " : l'armonia è - come in tutti gli altri movimenti - in tonalità minore, riuscitissimi i dialoghi archi-flauto-chitarra elettrica. Difficilmente, chi si confronterà con questo tipo di fusione ( classica-rock) riuscirà a raggiungere tale equilibrio. Nessuna forzatura, tanta naturalezza, suoni e il mix sono perfetti. Il solo di chitarra di Nico Di Paolo, molto personale, con suono acido ma mai freddo, dal vibrato deciso, prelude al pieno dell'orchestra, " baroccheggiante " al punto giusto e con temi da aria del '700.Si passa quindi al " Secondo Tempo - Adagio ", il tema centrale di questo concerto grosso. Il tema è subito esplicitato dal solo violino, subito è riprosto dalla chitarra elettrica. Arriva quindi il primo " cantato " del disco, i cori dei New Trolls hanno pochissimi eguali, anche se qui non si eccede, tutto è calibrato. Adesso ritorna il tema centrale, con il pieno dell'orchestra, ma con il basso elettrico e la batteria ha dare un tocco più rock, straordinariamente naturale ed omogeneo. Il tema è bellissimo, drammaticamente ricco di pathos : è un invito per Di Palo, che ci regala a questo punto un assolo di chitarra elettrica nervoso, teso, bellissimo. E' uno dei momenti più alti della musica italiana.Si passa allora al " Terzo Tempo - Cadenza - Andante con moto " : il violino è il protagonista del pezzo, con una cadenza a mo' di moto perpetuo, drammatica, tensiva. Si unirà quindi il resto dell'orchestra e gli altri strumenti del gruppo. La melodia, lascia presagire la classe di Bacalov come compositore. Sul finire, il ritorno dei cori " trollsiani ". Il primo lato del disco - ma da un certo punto di vista il concerto vero e proprio - si chiude con la ripresa del secondo tempo " Shadow ", dedicato ad Jimi Hendrix, ad opera del solo gruppo, che si lascia andare ad " improvvisazioni sul tema ", pregevoli e con tutte le caratteristiche del gruppo, la chitarra e la voce unica di Nico Di Paolo, il flauto e la voce di De Scalzi, i cori, la sicura tecnica strumentale, il gusto per la melodia e la vena più rock, elementi presenti anche nel secondo lato del disco, una lunga improvvisazione di venti minuti del solo gruppo dal titolo " Nella Sala Vuota ". Questo disco lascerà il segno nella musica italiana ( e non solo ) : l'anno dopo Bacalov ci riproverà con gli Osanna ( con la pubblicazione di " MilanoCalibro 9 " ), con il Rovescio della Medaglia ( " Contaminazione " ) con gli stessi New Trolls cinque anni dopo con il " Concerto Grosso per i New Trolls n°2 ". Ma anche se alcuni di questi sono degli ottimi dischi, nessuno riuscirà a riportare la magia, l'originalità del primo " Concerto Grosso ".

venerdì 14 dicembre 2007

Sandrose - Sandrose - 1971



Nel 1971, per iniziativa del bravo chitarrista Jean Pierre Alarcen, si formano i Sandrose, diventata poi band di culto del progressive francese. Ad Alarcen si uniscono Christian Clairefond al basso, Michel Jullien alla batteria, Henri Garella all'organo e al mellotron e soprattutto la voce di Rose Podwojny ( che in futuro avrà successo come solista ). Il disco, cantato in inglese, merita quell'aurea di " mitologia " di cui si è oggi circondato. Strumentalmente impeccabile, senza particolari punti deboli, con musiche seppur non sempre originalissime ma di sicuro impatto e suggestività e con la splendida voce di Rose Podwojny che si sposa perfettamente con il cupo e compatto sound ( prog-sinfonico?) del gruppo.L'album si apre con " Vision ": l'impatto non poteva essere più accattivante. Si viene subito rapiti dal riff della chitarra acustica come dai tappetti di mellotron e hammond. Ma quella che regala subito un timbro originale ed affascinante al sound è la voce di Rose Podwojny. Il pezzo ci da' una sonorità molto cupa, pienamente seventie's. A tratti potrebbe ricordare alcune colonne sonore di film dell'epoca. Dopo poco emerge quella che insieme alla voce è l'altra carateristica principale della band, la chitarra di Jean Pierre Alarcen: fraseggi mai banali, suono preciso ed efficace. E'uno dei pezzi più belli del disco.Il secondo brano " Never Good At Saying Good-bye "è più traquillo e " crmisoniano ", per l'uso del mellotron, ma sempre molto melodico e d'atrmosfera.A questo punto arriva " Underground Session (Chorea) ": apertura bellissima, molto d'impatto. Il brano, di oltre 11 minuti, potrebbe ricordare alcuni momenti - specie i cori e le parti di batteria - di " Ys " del nostro Balletto di Bronzo, le parti di chitarra sono però superiori, sempre calzante il lavoro dell'organo. Un gran bel brano, musicalmente rappresenta appieno il suono del disco, la cupezza e le tonalità minori delle armonie sono in ben evidenza. Dopo la bella ballata " Old Dom Is Dead ", che ha nei tappeti di mellotron e nelle chitarre la sua peculiarità, si passa a " To Take Him Away ", altra bella ballata, dove la ritmica della strofa affidata alla chitarra e in parte al suono percussivo dell'hammond, ha nel mellotron e nel tema del ritornello ( affidato ad una bella chitarra in distorsione ) la sua caratteristica.Molto delicata e suggestiva ma con tratti spesso epici la successiva " Summer Is Yonder ": la Podwojny è forse più a suo agio in pezzi più movimentati, ma la sua voce è sempre emozionante.Con il penultimo brano " Metakara " i nostri musicisti si mettono in gran evidenza, stringendo l'occhio ad un certo jazz-rock " manieristico", ma non senza originalità. I cambi tonali creano una efficace sonorità, il solo di chitarra è davvero pregevole, ma in generale tutte le parti musicali sono ben suonate e di piacevole ascolto. I trenta secondi di " Fraulein kommen Sie Schlaffen Mit Mir " chiudono il disco. Un gran bel lavoro questo dei Sandrose. Anche se non di facile reperibilità, raccomando a tutti un po'di sforzo per trovarlo, perchè ne vale sicuramente la pena.

Solomon's Seal - Pentangle 1972



Dopo il capolavoro " Cruel Sister " e il buon " Reflection ", i Pentangle lasciano la Transatlantic per approdare alla Reprise : il primo album sarà questo " Solomon's Seal " del '72. Ma in questo periodo, inziano anche dei contrasti all'interno del gruppo, che porteranno ad inevitabili tensioni finanche allo scioglimento: i cinque si riuniranno nuovamente nei primi anni '80, ma in realtà, dopo l'esperienza dei Pentangle, daranno vita a singole carriere.Una nota: pare che i master tapes di questo " Solomon's Seal" siano andati perduti e almeno fino a non molto tempo fa, del disco non se ne trovava ristampa su cd. Adesso pare sia uscita una versione per la Sanctuary Record. La formazione è quella classica dei Pentangle, con i bravissimi Bert Jansch e John Renbourn alle chitarre, Terry Cox alla batteria, Danny Thompson al contrabbasso e la splendida voce di Jacqui McShee.L'album si lega al meraviglioso " Cruel Sister " nell'uso di strumenti "diversi" da quelli utilizzati nel folk più tradizionale : sitar, chitarre elettriche, armonica a bocca. Il disco si apre con un pezzo cantato da John Renbourn , " Sally Free And Easy "di Cyril Tawney : subito echeggia la voce di Jacqui McShee, che ci da un piccolo assaggio delle sue qualità. Il brano ha in incedere lento, quasi blueseggiante nei fraseggi di chitarra elettrica.Con il secondo pezzo, il tradizionale " The Cherry Tree Carol " si entra nel suono " Pentangle "classico, con il contrabbasso dal suono cavernoso ma elegante, le chitarre perfettamente arrangiate tra loro e la splendida voce della McShee che rende il brano molto particolare." The Snows " ha un introduzione con chitarre e sitar, molto suggestiva e naturale: lo strumento " esotico " bene si lega con le " tradizionali " sei corde e con il flauto. Ci si tuffa quindi nella atmosfera medioevale di " High Germany ", anche esso brano della tradizione. La voce è sempre eccezionale, il tessuto sonoro è molto particolare, uno dei momenti più tradizionali del disco. " People On The Highway " è un brano della band, le prime battute riportano alla Sandy Denny dell'album " Fotheringay ", ma l'originalità della voce di Jacqui MacShee non è mai in discussione. Il brano si ascolta piacevolmente, le voci si legano bene, i suoni di chitarra elettrica con tremolo danno una sensazione di rilassatezza generale. A questo punto, arriva il capolavoro del disco e sicuramente uno dei momenti più significative della carriera della band : la ballata tradizionale " Willy O'Winsbury ". Il giudizio verso gli altri brani del disco verrà inevitabilmente sminuito dopo aver ascoltato questo " diamante ". Il testo, è a metà strada tra fiaba e leggenda. Qui la voce della McShee si " fa " flauto, struggente, dolce e malinconica, l'arrangiamento delle chitarre è elegantemente perfetto, un timido flauto duetta senza mai essere invadente con la voce, il contrabbasso da solidità e profondità. E poi la splendida melodia, antica e moderna, che strofa dopo strofa si apprezza sempre di più. Non ci si stanca ad ascolare questa canzone.Si ritorna ai Pentangle autori con " No Love is Sorrow ", brano dal classico sound, sempre ben suonata e " Jamp Baby Jump ", brano un po'più solare e dove alla tradizione europea si legano elementi del folk americano. Belli i suoni e le armonie delle chitarre acustiche, come i soli. Anche qui, i Fotheringay ritornano alla mente.Il disco si chiude con la tradizione di " Lady Of Carlisle ", arricchita dalle caratteristiche del gruppo : l'armonia, fondamentalmente basata su un accordo, è impreziosita dai cori, da una indovinata chitarra elettrica con wah e da ricami con l'armonica. Bel pezzo.Sarà non facile reperire questo album, ma agli amanti del genere, agli amanti dei Pentangle e soprattutto agli amanti della buona musica, non posso che consigliarne l'ascolto.

Saint Just - Saint Just 1973



Nel 1973 il progressive nel mondo e in Italia, è all'apice della sua popolarità grazie all'originalità ed al livello di creatività raggiunta in tante produzioni. In quest'anno, viene pubblicato il primo disco dei Saint Just,dal nome del rivoluzionario francese morto nel 1794. Nati nel partenopeo Vomero, in quanto ad originalità e creatività ha pochi eguali. I tre compenenti della band, ai quali si aggiungono altri musicisti, sono Antonio Verde alla chitarra, basso e voce, Robert Fix al sax e soprattutto l'affascinante Jane Sorrenti, vocalist di eccezionale livello ( sorella del nel bene e nel male più celebre Alan ). Il disco,che evoca atmosfere che spaziano dalla musica classica a quella medioevale, dal folk al prog vero e proprio con testi in linea con le caratteristiche delle musiche. Gli strumenti acustici saranno molto in evidenza in questo loro primo disco. Per "inquadrare" il genere, si potrebbero fare i nomi dei Pentangle, dei francesi Sandrose, della Third Ear Band e aggiungerei alcuni momenti dei Renaissance. In ogni modo, la loro originalità è sicura, come sicuro l'ottimo livello di questo album.Il primo brano, uno dei migliori, si intitola " Il Fiume Inondò" :il pezzo si apre con una sonorità minore, con la chitarra che lascia spazio ad un piano molto "classicheggiante" ,ma presto arriva la straordinaria voce di Jane Sorrenti, che in alcuni tratti riporta alle migliori performance del fratello Alan ( del periodo di "Aria", ovviamente) specie in alcune modulazioni e nel modo di cantare allungando le vocali. Il brano cambia ancora, con un bel riff di sax, che duetta con la voce della Sorrenti che si riprende subito la "scena", con un crescendo tensivo molto efficace. A questo punto, la canzone cambia nuovamente, con un tema affidato alla chitarra elettrica, con la batteria di un giovane Tony Esposito dal suono molto crudo, con il rullante molto in evidenza nei fill. Di qui, si ritorna al tema iniziale affidato ala voce ed al piano. Un gran bel pezzo.La seconda traccia è "Il Risveglio", anche qui il testo ha sfondo "fantastico", la voce di Jane Sorrenti si adatta e si modella in modo eccezionale alle atmosfere psicho-folk-prog delle musiche.Armonie semplici ma linea vocale non banale sono le caratteristiche di " Dolci Momenti ", le campane aggiungono un tocco " fantastico " alle belle atmosfere del pezzo: davvero suggestiva la voce.Altro piccolo capolavoro lo troviamo nel quarto brano, " Una Bambina ". Il pianoforte fa da sfondo alla voce, che con le sue lunghe note crea davvero una atmosfera tutta particolare. Il brano, a metà cambia, solo di chitarra elettrica e ritmica accesa di acustica, un momento sicuramente più solare che preclude all'intervento vocale di fratello di Jane, Alan,che ospite d'eccezione caraterizza ancora di piu' il pezzo.Si passa quindi a " Triste Poeta di Corte ", con un sax molto "napoletano", chitare acustiche che lasciano presto lo spazio ad una sorta di "confusione impetuosa", con la voce a tratti recitante, improvvisazioni. Presto pero' torna la calma, con uno dei momenti più " normali " del disco, con armonie affidate a piano, batteria e basso. Il disco si chiude con l'omonima " Saint Just ", cantata in francese, una bella ballata, "giocosa" e a tratti "circense" nei suoni e nel rievocare una certà "francesità", specie nella prima parte. E' un disco non facile e che va ascoltato più volte per apprezarne le qualità e le sfumature. Una della più originali e migliori produzioni italiane, lievemente inferiore il loro secondo album, pubblicato nel '74.Le emozioni e le atmosfere donateci principalmente dalla voce di Jane Sorrenti sicuramente colpiranno gli amanti della buona musica.

Fotheringay - Fotheringay - 1970



Alcuni lo considerano il primo e l'unico album dei Fotheringay, altri lo considerano il primo disco solista di quella straodinaria, irrequieta ed unica artista quale è stata Sandy Denny. Non credo sia importante una discussione del genere, specie davanti un opera di questo livello.Siamo nel 1970, l'esperienza dei Fairport Convention comincia a "soffocare" la forte personalità di Sandy Danny e questa, insieme al compagno, l'australiano Trevor Lucas, da vita a questa breve ma intensa esperienza. Ci saranno con loro musicisti dei Fairport e non. Il nome, evidentemente, segna anche un legame con il precedente gruppo, dato che " Fotheringay " è il titolo di una canzone ( un gioello di poco più di 2 minuti) dei Fairport Convention. Il disco si apre con un brano destinato a diventare uno dei classici del repertorio di Sandy Danny - che è autrice della gran parte dei pezzi dell'album - ovvero " Nothing More ". Brano elegante,la voce, piena di pathos è splendida, l'arrangiamento semplice ma efficace è perfetto : il disco non poteva aprirsi in modo migliore. Il secondo pezzo è " The Sea ", anch'esso di Sandy Denny, molto delicato, sarebbe stato molto a suo agio in dischi come " Bryter Layter " di Nick Drake, per sonorità , melodia, classe. Con il terzo brano " The Ballad of Ned Kelly ", di Lucas, le atmosfere si fanno più classicamente folk, le chitarre elettriche molto country, la voce di Lucas ed il ritornello "corale " rendono il brano piacevole e " tipico" del genere. ma ci pensa Sandy Denny a riportarci nella magia delle sue composizioni, con la delicatissima e struggente " Winter Winds ", un piccolo capolavoro di semplicità. Segue " Peace in The End ", di Lucas-Denny, ballata folk, ricca di cori e con dei bei interventi di voci. Arriva quindi" The Way I Fill ", tripudio di chitarre, dove la tecnica e la classe sopraffina di Jerry Donahue emerge prepotentemente. Ma non si tratta solo di un pezzo "chitarristico" anzi. Come sempre, l'intreccio sono tra i musicisti è ottimo, le dinamiche sono notevoli. Gran pezzo.Ritorna Sandy Denny come autrice e vocalist in " The Pond and The Stream ", brano che racchiude tutte le caratteristiche dello stile " Denny "ovvero melodie delicate ed eleganti, arrangiamenti mai invasivi, voce meravigliosa. Il tributo a Dylan ( abitudine dei Fairport) si ha con la cover di " Too Much of Nothing ", cantata da Lucas. L'album si chiude con due pezzi tradizionali, l'emozionante "Banks of The Nile " e Gypsy Davey ", che sono tra i momenti migliori di un disco eccezionale.Definirlo un disco folk o folk-revival è sbagliato oltre che riduttivo, si tratta di un capolavoro che va ben'oltre l'etichette.Nella sua carriera ( finita tragicamente nel '78 a soli 31 anni ), Sandy Denny ci ha regalato tantissimi gioielli e questo sicuramente è uno di loro.

Id - Equipe 84 - 1970



L’Equipe 84 non è solo quella del beat dei ’60 – tra l’altro sicuramente tra le formazioni meno becere del periodo - ma è anche quella di “ Id “, curioso esperimento inciso e pubblicato nel 1970.
In quel periodo la formazione storica dell’Equipe ebbe alcune modifiche, condizionate da fattori esterni alla musica, mantenendo come perno la figura di Maurizio Vandelli, autore delle musiche e dei testi, che chiama per questo lavoro musicisti esterni alla band.
Già la copertina del disco segna una discontinuità con le precedenti del gruppo, e se le musiche mantengono vivo – e la riconoscibilità è un pregio- lo stile di Vandelli, è altresì evidente che non siamo presenti davanti ad un semplice disco beat : si può parlare, schematizzando un po’, di una sorta di proto-prog, con chiara matrice pop. E se le ritmiche sono spesso “beatleseggianti “, spunti originali e comunque degni di nota ce ne sono.
E’ un disco in ogni modo interessante, sotto diversi aspetti.
Il primo brano “ Id “ è sicuramente una novità nel panorama italiano: strumentale ha nell’ uso delle tabla indiane la sua caratteristica. Sono sonorità affascinanti, sicuramente poco “Equipe”, purtroppo non avranno continuità nel disco. Il brano si lega a “ Buon Giorno Amico Mio “, brano allegro, gioiso, con un tema facile e diretto che troveremo nel fanale del disco. Si nota subito però, che rispetto i tradizionali missaggi della musica pop, abbiamo gli strumenti più in vista della voce, per altro sempre caratteristica di Vandelli. L’arrangiamento è ricco di chitarre, molto presenti le 12 corde e di mellotron. Il terzo brano, anch’esso legato al precedente è “ La Notte di Verità “, il testo, si lega molto bene alle musiche. Qui alle sempre presenti chitarre, troviamo flauti e clavicembalo. La successiva “Giochi d’amore “, molto beatlesiana nelle melodie e nell’arrangiamento, scorre via in modo piacevole e senza eccessive pretese : scherzoso il divertente il finale. Il quinto brano affronta lo scontro generazionale, è “ Padre e Figlio “ : qui si anticipa la “Father and Son “ di Cat Stevens nella struttura della pezzo, cioè il dialogo affidato al padre ( la strofa ) e al figlio ( il ritornello ). Furba l’idea di diversificare abbastanza le musiche, con una strofa “leggera”, dai tratti rilassati countryeggianti ( fraseggi in “stile” di Donatello alla chitarra ), da “ predica seduto sul divano “ con un ritornello più melodico, molto tipico del periodo, ma gustoso. Il testo, oggi ovvio ma in Italia nel ’70 sicuramente meno, con anche con passaggi duri “…tra noi c’è una vita, capisci papà ? La tua è tanto vuota e sempre sarà…”.
“ Jo”, con inizio quasi militaresco e con l’hammond di Mario Totaro ben in evidenza grazie ad accordoni al limite dell’overdrive, affronta il tema della droga – tra i primi brani in Italia - in modo non banale. Musicalmente il pezzo, specie per l’arrangiamento, potrebbe ricordare alcune sonorità da “ Collage “ de Le Orme.
Si arriva quindi a quello che è probabilmente il pezzo più bello dell’album oltre che quello meno “pop” e nell’intenzione più prog: gli oltre 7 minuti di “ Un Brutto Sogno “. Il testo, non brilla in modo particolare per originalità, peccato. La musica è molto bella, l’idea di dare inizio ad ogni giro armonico con un accordo diminuito aiuta a dare l’idea di “brutto sogno”, il piano, con timbrica quasi “honky tonk” ben si lega al giro ossessivo. Completa il tutto un tappeto di mellotron. I 4 minuti finali sono strumentali, ripetitivi ma dinamici, non stancano. Dopo il rock-blues di “San Luigi”, dove oltre la chitarra elettrica si mette in luce la batteria di un giovane ma già riconoscibilissimo Franz Di Cioccio, si arriva a “ Il Re dei Re “, pezzo a sfondo quasi “mistico”, con la voce di Vandelli presente in tutta la sua “estensione”, brano non originalissimo, ma pregevole il suono generale. Ormai siamo alla “ Fine”, curiosa chiusura del disco, che riprende il tema iniziale de “ Buon Giorno Amico Mio ”, affidato ad un flauto, ricco di cori, con il mellotron a rendere tutto orchestrale e quasi “epico”: ma su questa base, in modo ironico vengono ringraziati i partecipanti al disco.
Sicuramente non avrà cambiato il corso della musica in Italia, ma è un disco che rappresenta bene quel passaggio, quella zona “grigia” tra il beat-pop ed il progressive vero e proprio. Inoltre, essendo registrato in diretta, ancora oggi mantiene una freschezza ed un impatto sonoro che merita l’ascolto.

Picture at an Exhibition - Emerson,Lake & Palmer - 1971



Considerato il primo "supergruppo" della storia del rock ( per supergruppo si intendeva una band formata da musicisti gia affermati in precedenti esperienze), Keith Emerson,già Nice; Greg Lake,già King Crimson;Carl Palmer,già Atomic Rooster; fanno il loro strepitoso esordio dal vivo, al Festival di White. La performance è sbalorditiva per tutti, per la prima volta non solo si prende ispirazione dalla musica classica, ma è proprio essa ad essere riarrangiata, prendendo una nuova forma.Lo spettacolo non è solo musicale, ma anche visivo: Emerson suona l'hammond spesso al contrario e con il solo polllice e mignolo delle mani, Palmer durante l'assolo di batteria, senza interrompersi si toglie la maglietta, durante lo spettacolo vengono sparati colpi di un antico cannone. L'effetto è sicuro, il successo anche.Parlerò prossimamente dei loro lavori più importanti ( come il primo omonimo, Tarkus, Trilogy), ora affronterò l'album più eccentrico, più eccessivo, più kitch,della produzione degli E,L&P: Picture at an Exhibition, pubblicato nel 1971.E'un rifacimento dell'omonima opera classica di Modest Musorgskij del 1874 - Quadri di un'esposizione - . Ma dire che si tratta solo di un rifacimento sarebbe sbagliato e riduttivo: qui i temi vengono rivisti completamente, si mischiano con le composizioni originali del trio, i suoni, per l'epoca ( e non solo...) sono futuristici, le scale usate da Emerson sono all'avanguardia,la sua tecnica è fuori norma, l'influenza che avrà su i tastieristi che lo seguiranno sarà fondamentale ( si potrebbe dire che è L'Hendrix della tastiera) il drumming di Palmer ( 21 anni all'epoca) è eccezionale, espressivo e tecnicamente ineccepibile. A questo si aggiunge il collante dei due geni, il solido lavoro di Grag Lake, che oltre a scrivere i testi e a cantare, con il suo basso si rivela indispensabile per l'economia sonora del gruppo, oltre a sfrtuttare il suo Fender in modo non proprio convenzionale, distorcendolo e filtrandolo spesso con pedale wah. Il tutto poi, è importante ricordarlo, è registrato in uno spettacolo dal vivo.Inutile descrivere brano per brano, il disco è da ascoltare nel suo insieme ( da vedere anche il video, con ingenui tentativi di video-psichedelia, ma documento importante per testimoniare un epoca oltre che per evidenziare il funambolico lavoro di Emerson): Il tema "Promenade" ritornerà spesso nel disco, da segnalare la preziosa chicca acustica di "The Sage", con un solo di chitarra di cui si potrebbe dire che "ha fatto scuola": a questo punto Emerson è incontenibile, anche una struttura tradizionale come il blues di "Blues Variation" potrà essere portata alle estreme conseguenze,i suoni dell'hammond si miscelano alla perfezione con tutto il suono prodotto dal Moog, di cui Emerson capisce subito le potenzialità. E'uno dei pilastri del progressive, ne racchiude alcune peculiarità, come gli eccessi, come la tecnica elevatissima. Molti saranno gli emuli di questa tipologia di progr (elettronica e musica classica come base), ma agli E,L&P oltre la primogenitura, gli va riconosciuto un livello complessivo superiore, che neanche loro stessi riusciranno da li a pochi anni a raggiungere più.

Storia di un Minuto - Premiata Forneria Marconi - 1972



Considerati tra i migliori session-man italiani ( tra la fine degli anni 60 e l'inizio dei 70 hanno suonato praticamente con "tutti"), dal nucleo originario de "I Quelli", Mussida, Di Cioccio, Piazza, Premoli si uniscono a Mauro Pagani e danno vita a quello che diventerà il più importante gruppo italiano di progressive (e non solo ) dei '70 nonchè il gruppo italiano più conosciuto all'estero.Nel 1972 esce "Storia di Un Minuto", il loro primo disco. Si può dire , come si dirà nel mondo, che è nato lo "spaghetti prog" e non in senso negativo, è la via italiana al progressive. E'vero che esempi di progressive in Italia c'erano stati anche prima dell'uscita di questo album, non si può dare alla PFM la "patente" di primo disco prog in Italia. Ma sicuramente, è il disco in cui si parla compiutamente il nuovo linguaggio, in maniera originale e non "provinciale".Il disco si presenta con una copertina innovativa rispetto alla media italiana, richiami a De Chirico e alle copertine del prog d'oltre manica.Si parte con " Introduzione ", con chitarre acustiche in evidenza, riff di chitarra elettrica originali, flauti: una bella atmosfera ed un efficace preludio ai suoni che ascolteremo nel resto del disco. Il secondo pezzo - che uscito in 45 giri - ha anticipato l'uscita di "Storia di Un Minuto" , sarà destinato a diventare il più famoso brano del gruppo e uno tra i più belli italiani di sempre : " Impressioni di Settembre ". Struttura grossomodo classica , con strofa "tranquilla" (il testo è di Mogol) , eleganti le parti di chitarra di Franco Mussida, dinamica nel lento incalzare, ha però nel ritornello non cantato il suo momento massimo, con il tema affidato al moog di Flavio Premoli, con il drumming fantasioso di Franz Di Cioccio, il tutto impreziosito dal flauto di Mauro Pagani. E' un grande pezzo, destinato a durare negli anni. Dalla relativa tranquillità dei primi due brani, si passa a " E' Festa ", che miscela ritmiche tradizionali ( una sorta di "saltarello " tipico della musica tradizionale dell'Italia centrale ) a sonorità hard - dovute anche al solido il basso di Piazza (in seguito sostituito da Patrick Dijvas) - ma con moog sempre ben in evidenza. Il pezzo poi cambia: la Pfm non è mai ovvia, le atmosfere classicheggianti del flauto e della chitarra fanno da intermezzo alla ripresa, in puro stile prog, con unisoni e sonorità piene.Si passa quindi a " Dove...Quando " prima e seconda parte. La prima ha dei toni fiabeschi, a tratti medioevali, molto suggestiva la complessiva sonorità. Nella seconda, il tema originale viene stravolto dall'organo, il violino " buca " il suono di prepotenza e l'eccezionale ritmica di Franz Di Cioccio ( con richiami jazz ) fanno di questo pezzo un grande momento strumentale, non solo del disco ma del prog italiano. Il brano si lega poi, in modo molto efficace a " La Carrozza di Hans ", che l'anno prima fece conoscere al pubblico la PFM. Il pezzo è classicamente progressive, ricco di variazioni, suoni accattivanti, la classe e la tecnica dei componenti del gruppo emergono in maniera chiara e indiscutibile. Gustosissimo l'intermezzo "classico" per sola chitarra, il finale ricorda molto ""21st Century Schizoid Man" dei King Crimson.Per il finale del disco , con "Grazie Davvero" si mette in evidenza l'originalità compositiva : sicuramente è il pezzo meno "facile" del disco, ma molto suggestivo oltre che sonoricamente vario (il mellotron è qui sfruttato appieno). L'album è omogeneo, suonato con tanta maestria, l'unico punto debole sono le parti vocali, la PFM patirà l'assenza di un vero vocalist.Con questo album la PFM si presenta al mondo musicale in maniera inequivocabile:in Italia, ma anche all'estero ( ed in paesi come Usa e Inghilterra), queste tre lettere, saranno per sempre sinonimo di grande musica.

Rock Bottom - Robert Wyatt - 1974



1 Giugno 1973. C'è una festa, c'è uno uomo che cade da un altezza di quattro piani. Si rompe la spina dorsale, rimarrà paralizzato dalla cintola in giù. Per uno uomo qualunque è un dramma, per un batterista, se si può, lo è ancor di più. Specie se il batterista in questione è uno dei padri del Canterbury sound ( batterista con i Wild Flowers, Soft Machine, Matching Mole, autore tra l'altro di Moon in June, una delle canzoni più belle di sempre ), uno dei musicisti e compositori più geniali del '900. Nel 1972, Wyatt è a Venezia, con la sua compagna Alfie e inzia a lavorare ad un disco solista. Ma successivamente, dopo la tragedia, il lavoro ha una trasformazione, il dramma di Robert entra con prepotenza nella stesura dei brani. Nasce " Rock Bottom ". Che parla del profondo, del mare, dell'anima.Il disco è in parte scritto prima dell'incidente, in parte negli otto mesi in ospedele che seguirono e registrato in uno studio volante nei pressi del cottage dove Wyatt si era ritirato. E' un disco solitario, sicuramente non pomposo, ma ricco di "mani esterne ": tanti saranno infatti i musicisti, tra i migliori della scena, ad impreziosire ancora di più questo gioiello.Si parte dal fondo quindi, da fondo del mare con "Sea Song ". Le tastiere, quasi sempre suonate dallo stesso Wyatt, forniscono l'atmosfera che sarà caratteristica di tutto l'album. C'è anche un tamburello e un basso efficace ed originale. Ma soprattutto c'è la splendida voce, unica, di Robert Wyatt. Che rincorre se stessa, come pesci che si inseguono in mare. Sembra di essere nel fondo degli abissi, l'acqua con i suoi rumori, ci avvolge. La vena e le origini jazzistiche di Wyatt emergono con il secondo brano, " Last Straw ", il basso caratterizza e da' spessore al pezzo : le atmosfere si incupiscono, qualcosa sta cambiando.Arrivano i fiati di Mongezi Feza, è " Little Red Riding Hood Hit the Road ". I vocalizzi e le trombe si rincorrono, i non-sense del testo sembrano calzanti più che mai, la musica si agita, si sta agitando il mare, melodie e armonie semplici e complesse fanno a gara per primeggiare. Forse è l'incontro con se stesso, nella profondità dell'anima.Ma dopo aver toccato il fondo, c'è la speranza nella vita, arriva "Alifib/Alifie", forse il momento massimo del disco. Dedicata in modo evidente alla sua compagna, si apre in maniera geniale: non potendo dare più il ritmo con la sua batteria, Wyatt lo farà con il respiro, sussurrando "Alifie". Una canzone meravigliosa, un amore che non ha parole per spiegarsi, il testo è praticamente ( o apparentemente ?) senza significato, "..And nit not, nit nat not.." canta Wyatt. Ma che succede ? "Alifib " si trasforma, diventa una folle dichiarazione d'amore, agitata, frenetica: della dolcezza della prima parte c'è qualcosa, ma tutto si deforma: ci penserà Alifie a rispondere a Wyatt, "non sono la tua dispensa...sono Alife , la tua guardiana ". Siamo alla fine del viaggio, con " Little Red Robin Hood Hit The Road ", elogio della follia, che porta ad una felice risalita. Il brano splendido, arricchito dalla chitarra di Mike Oldfied, cambia in modo vertiginoso, per finire in risate.Il disco, musicalmente è superbo, attualissimo, e non poteva essere altrimente se pensiamo che oltre alle tastiere suonate dallo stesso Wyatt ci sono il basso di Hugh Hopper e richard Sinclair, i citati Mongezi Feza alla tromba e Mike Oldfield alla chitarra elettrica,Gary Windo al sax e clarino ( quello di di "Alifie" anche se non sembrerebbe è un clarinetto...) e d altri. La produzione poi, è di Nick Mason, batterista dei Pink Floyd."Rock Bottom " come tutti i lavori introspettivi, può dare diverse sensazioni, diverse emozioni. Ognuno lo sentirà in maniera diversa. Ma, probabilmente, non tutti possono apprezzarne il valore. Non è per tutti, per fortuna.

Collage - Le Orme 1971



Ci sono degli album che in un un modo o nell'altro diventano lo spartiacque tra un "periodo" musicale ed un altro. Dal beat della fine dei '60, saranno Le Orme a parlare il nuovo linguaggio in Italia e l'album che segnerà il passaggio al progressive sarà "Collage" uscito nel 1971 per la Philips.In puro stile Emerson,Lake & Palmer, Le Orme passano da una formazione con 5 elementi della fine degli anni sessanta a quella di trio : Aldo Tagliapietra, chitarra,basso e voce, Antonio-Toni Pagliuca, tastiere e Michi Dei Rossi alla batteria.Il disco si apre con quello che diventerà una delle "sigle" del prog italico e che da' il nome all'album : "Collage". Pezzo strumentale, epico e classicheggiante, non ovvio ma soprattutto molto innovativo per il contesto geografico-temporale. Gustoso l'intermezzo barocco, come sempre molto presente il drumming. Si passa poi ad "Era Inverno", uno dei brani più belli della produzione de Le Orme. Si parla di una esperienza con una prostituta, in maniera molto poetica e delicata. In questo pezzo ci sono tutte le caratteristiche sonore del gruppo veneto : la voce ieratica e le chitarre 12 corde di Tagliapietra, gli organi incisivi di Pagliuca e la batteria molto presente e ricca di fill di Dei Rossi. Nel pezzo c'è una lunga divagazione improvvisativa, più lontana dalla forma canzone del resto del brano, che diventerà nelle esecuzioni dal vivo ancora più lunga e "dura". Con il terzo brano, "Cemento Armato" si toccano temi "ambientalisti", cosa non banale per il periodo ed è ben in evidenza pianoforte e l'organo. Molto bello il finale. Arriva quindi "Sguardo Verso il Cielo", destinato a diventare uno dei pezzi più conosciuti del repertorio delle Orme. Anche qui la forma canzone classica viene molto "deformata", un brano che è davvero innovativo per il periodo e che dal vivo ( sentire Le Orme de " In Concerto " del '74 ) diventa tappeto per evoluzioni tastieristiche e con un uso della batteria notevole, anche con la doppia cassa."Evasione Totale " cerca di creare atmosfere ipnotiche, ci riesce a tratti, sono evidenti però gli embrioni di quello che diventerà il suono maturo delle Orme di "Felona e Sorona " che verrà pubblicato 2 anni dopo. Dopo la malinconica ed onirica "Immagini", il disco si chiude con la toccante " In Morte di un Fiore " : brano drammatico nel testo, ma con arrangiamenti ed armonie leggere, brano elegante e suggestivo. La carriera delle Orme sarà lunga, i tre sono ancora attivi, ma dopo la metà degli anni '70 scieglieranno di virare verso orizzonti più pop, mantenendo sempre alto il livello e la qualità, ma lontani dalla fantasia e l'originalità del periodo Prog, quello che ha inizio, non solo per il gruppo ma per il prog italiano con "Collage".

In The Court of Crimson King - King Crimson 1969



Oggi, dopo quasi quarant'anni, è difficile scrivere di alcuni dischi. E forse anche inutile. Per molti, il disco che più ha influenzato la musica dagli anni sessanta in poi è Sgt. Pepper's dei Beatles, per tanti il disco meglio prodotto e "riuscito" è Dark side of the Moon dei Pink Floyd e poi via via con i Led Zeppelin ecc. Sicuramente l'album dei Beatles rimane l'apripista per eccelenza, ma per chi scrive, nell'olimpo della Musica, evidentemente non solo rock, un posto i primo piano - se non " il " posto in primo piano spetta a " In the court of the Crimson King " , dei King Crimson. Prossimamente tornerò in modo più approfondito - ma sempre alla mia maniera - sui King Crimson, quando tratterò altri loro dischi, ma in questo caso non credo sia necessario commentare, l'avveniristica "21st Century Schizoid Man", vero manifesto del progr, la struggente " Epitaph ", la delicatezza di " I talk to the wind ", o il brano che da il titolo all'album. Siamo lontani dalla psichedelia pinkfloydiana, dalle commistioni con la musica classica ( Nice, Procolo Harum e Moody Blues ). Qui è tutto perfetto, nuovo, dalla voce di Greg Lake ( pochi mesi dopo con Emerson e Palmer darà vita al famosissimo trio ) ,alla chitarra e mellotron di Robert Fripp, vera anima del gruppo, alla batteria di Mike Giles (autore insieme al fratello e Fripp di uno dei primi dischi progressive), ai fiati originali di Ian Mac Donald ed i testi di Pete Sinfield ( che scriverà i testi in inglese della Pfm ). Il gruppo ( ne farà parte fino ad oggi solo la mente, Robert Fripp) avrà una carriera eccezionale, tanti album,anche molto diversi l'uno dall'altro, ma accumunati da un livello eccelso.Per quanto riguarda questo lavoro, oltre la musica ed i testi, è ormai entrata nella storia la copertina : l'uomo schizoide, l'ossessiva e sinistra immagine che meglio rappresenta la musica e i testi di questo capolavoro.

Ys - Il Balletto di Bronzo - 1972



Ys - Il Balletto di Bronzo
L'anno di pubblicazione questo disco è il 1972, ma è certo che Gianni Leone, eccentrico musicista partenopeo abbia avuto in testa e nelle dita quest'opera già da alcuni anni. E questo, data la qualità, l'originalità della musica in questione ha dello straordinario. Anche perchà l'autore, all'epoca era poco più che adolescente.Leone si aggiunge alla band che nel '70 aveva pubblicato l'album beat "Sirio 2222" e ne cambia radicalmente il suono e non solo.Verrà pubblicato quindi, un solo album "Ys" per la Polydor. Il tema dell'album - concept anche in questo caso - è ispirato da un racconto medievale francese ("L'Histoire d'YS"), e parla dell'ultimo uomo rimasto sulla terra, circondato solo da una sorta di non-morti. Il tema è inquitante, delirante. E sicuramente, ben si adatta alle musiche: tutto è apocalittico, dark, suonato tra l'altro in modo eccelso da tutti i musicisti, ma dove è evidente la classe superiore del giovane Leone.Già la prima parte del primo brano, "Intro", è emblematica del suono del disco, organi, campane, progressioni lente e ossessive. Il tutto farà da preludio a ritmi quasi jazzati, ma con accompagnamenti di organi e riff di Moog inquietanti.angoscianti. Per la prima volta appariranno in Italia tutte le potenzialità dei "rumori " - intorno al 5 minuto - prodotti dai sintetizzatori e della loro paradossale espressività. Il brano procede senza cali di tensione, ma con efficaci variazioni, soli di chitarra, tappeti di mellotron. Nel "Primo Incontro" subito la chitarra e poi la spinetta ( Leone suonerà quasi tutti gli strumenti a tastiera esistenti, dai più antichi ai più moderni ) ne caratterizzano il suono. Nel "Secondo Incontro " la musica si fa sempre pià dura, a tratti ricorda un certo hard rock del periodo. Il pezzo successivo, "Il Terzo Incontro", è quasi un omaggio agli Emerson,Lake & Palmer di "Picture at an Exhibition" soprattutto nei duetti moog-voce. Si arriva quindi all' "Epilogo", che si apre con uno dei canoni del progressive, con lunghi riff all'unisono, con i contrappunti fra i diversi strumenti, con i tappeti di mellotron che lasciano spazio alle peripezie tastieristiche di Leone a ragion veduta considerato uno sorta di Keith Emerson italiano.Doveri contrattuali portarono Il Balletto di Bronzo a pubblicare in 45 giro il brano (pop, ma lo stile rimane...) "La Tua Casa Comoda", inserito nel Cd. Supporto che tra l'altro ha il pregio di non avere il limite del vinile ( una facciata non ha tanto spazio...) e di non avere quindi interruzioni tra un brano e l'altro.In tutto l'album, gli intrecci tra le tante e complesse parti strumentali sono pressochè perfette, gli arrangiamenti sono mai scontati o banali, il livello dei musicisti - ma Leone una spanna sopra agli altri - è ottimo.Il limite solito di molti dischi di prog italico potrebbero essere le parti vocali, ma a dette di chi scrive, difficilmente si riescono ad immaginare diverse. Ascoltando Il Balletto di Bronzo di "Ys", ci si trova davanti ad un capolavoro.

L'Uomo - Osanna 1971




E' il 1971, anno importantissimo per il progressive europeo.Finalmente questo nuovo modo di fare musica arriva anche in Italia. I musicisti italiani saranno molto bravi a " farlo proprio " aggiungendoci elementi caratteristici della nostra cultura musicale. Tra i primi gruppi che dal " Beat " si sposteranno verso lidi progressive ci saranno band come Le Orme, la Pfm, i New Trolls ( gruppi che tratterò prossimamente ) e sicuramente gli Osanna. Gruppo napoletano, balzerà da subito all'attenzione della critica, guadagnandosi un primo posto ex-aequo (gli altri erano la Pfm con una versione de "La carrozza di Hans" e Mia Martini) al Festival di Musica d'Avanguardia del '71. Colpì subito la teatralità esteriore nelle performance dal vivo, che ben si sposavano con i visi truccati ( anni prima dei Kiss...), con le chitarre spesso acide e i riff non banali,le belle ballate acustiche ed un ruolo originale ed aggressivo nell'uso del flauto e del sax.Andiamo a conoscere questo primo disco degli Osanna, dal titolo "L'Uomo", pubblicato nel 1971 per la Fonit. Si tratta di un raro esempio di felice commistione tra una musica che affonda le radici nella sua napoletanità, ma con una evidente e preponderante venatura rock. Come spesso ricordato, si tatta di uno dei momenti musicali più belli di rock italiano slegato dalla più classica matrice di prog-rock sinfonico. Se nella Pfm ci possiamo trovare tracce dei King Crimson o dei Genesis o nelle Orme richiami ai Van der Graaf (non scopiazzature, sia ben chiaro si tratta di gruppi italiani che hanno potuto competere con i "mostri sacri"), negli Osanna de " L'Uomo "questo non avviene. Qui potrebbero essere presenti sicuramente tratti dei primi Jethro Tull, ma l'originalità del gruppo è sicura.La struttura dell'album è quella di concept, tutti i testi ( in italiano e in inglese ) sono legati tra loro, centrale è il tema della sofferenza, materiale e psicologica. L'Uomo, in tutti i suoi aspetti è al centro dell'opera. Bello e suggestivo l'Intro che prelude a L'Uomo, un dei pezzi più belli del disco. In ben evidenza le chitarre acustiche ed elettriche di Danilo Rustici ( fratello di Corrado, che diventerà chitarrista e produttore di Zucchero e anche di importanti artisti americani) ,il flauto di Elio D'Anna, un drumming fantasioso e mai scontato di . Possono apparire un po' datati alcuni interventi corali. Si passa quindi al grintoso " Mirror train ", cantato in inglese. Qui il richiamo ai Jethro Tull è più evidente, soprattutto nella parte strumentale " swingeggiante ", le atmosfere sono tipicamente seventies. Il brano successivo, " Non sei vissuto mai ", tra i più belli del disco, parte con un riff di chitarra originale ed accattivante. All'interno del brano poi, una bella divagazione strumentale, molto d'atmosfera e che si riallaccia successivamente e con naturalezza allo spirito rock della canzone. Dopo il rock di "Vado verso una meta ", si arriva a quello che è probabilmente il pezzo più bello dell'album : " In un Vecchio Cieco ". Le liriche raggiungono il momento più alto del disco, la ricerca spirituale è al centro del testo. Le chitarre acustiche sono in grande evidenza, ma sarà D'Anna con il suo sax a farla da padrone, con note lancinanti e strazianti. Con " L'amore vincerà di nuovo ", gli Osanna danno una luce di speranza, dopo le inquietudini del brano precedente. La prima parte è in inglese,ma subito dopo si ritorna all'italiano. Chitarre ritmiche ben in mostra, come anche i fiati. Il suono è tipicamente Osanna, come loro sono le "risate" sul finire del brano. "Every's body gonna se you die" e "Lady Power chiudono il disco". Anche qui l'utilizzo del flauto ricorda Ian Anderson, le chitarre partono da una evidente intuizione hendrixiana.Due "curiosità" : l'auto-citazione sul finire de "L'Uomo" ed un richiamo militante con "Bandiera Rossa " accennata con la sola chitarra nella fine di "Mirror Train". Questo album, come molti del periodo, non "stacca" tra una canzone e la successiva, riascoltarlo "scaricandolo"La maturità non è ancora quella di "Palepoli", ma le idee, la forza di questo disco fanno perdonare alcune ingenuità e portano L'Uomo ad essere uno dei dischi più importanti ed originali della scena rock-prog italiana.